Spaesamento

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Renè Magritte, L’invention collective, 1935

 

spaesamento [spa-e-sa-mén-to] s.m. • Senso di smarrimento e di estraneità, provato da chi si trova in un luogo o in un ambiente nuovo e sconosciuto, anche in usi figg. • a. 1934   Così la sua definizione sul dizionario Sansoni

Sentirsi spaesati, perdere i punti di riferimento a noi noti, non riconoscere il luogo che ci circonda, avvertire un senso di smarrimento e di estraneità alle cose, persone o abitudini in cui siamo calati. Aggiungo, da una tesi di dottorato di ricerca in Geografia lanciata nel web: Il termine spaesaggio – in inglese unlandscape [sic!] – è un peggiorativo di paesaggio che contemporaneamente però include il significato di spaesamento, in quanto in esso si fa riferimento a paesaggi la cui degenerazione, decontestualizzazione o perdita di identità sia tale da creare nell’osservatore un senso di spaesamento. [da http://archivia.unict.it/bitstream/10761/264/1/tesi%20vecchio.pdf]

 

Spaesamento, comunque subìto, ma di doppia natura se è il paesaggio attorno che cambia per effetti esogeni all’individuo e anche quando è il singolo a spostarsi dal luogo di nascita, per elezione o necessità.  Noi qui, Italians in DC siamo sbarcati in America con alle spalle storie diverse e motivazioni di varia natura;  il più delle volte ebbri di quell’euforia ingenua che ci contraddistingue o di quella baldanza altezzosa e prevenuta, ben lontana dagli altri connazionali dei secoli passati. Poi, però, ti svegli un mattino di febbraio e per un motivo qualsiasi [un burrito mal digerito, un colloquio andato storto, un matrimonio finito] ti si forma nel cervello, nitida, la frase, quasi come un’epifania: “ma che c@##* ci faccio a DC?”  Robetta da poco.  Un bel sorso al tazzone di caffelatte, qualche frollino in fondo al pacco di biscotti spedito dalla mamma o pagato in loco a peso d’oro e si ricomincia! I nostri drammi raramente sfociano in disturbi comportamentali di cui leggiamo sui giornali locali.  Le nostre patologie sono poca cosa.  Nonostante la globalizzazione ci vorrà forse almeno un altro completo avvicendamento generazionale prima di emulare gli States anche in questo. Eh si, perché se il vecchio adagio avverte che l’erba del vicino è sempre più verde, poi ci accorgiamo che non è solo il grigio ad avere 50 sfumature diverse…

Quell’avvertimento, tuttavia, può valere per alcuni stagisti, giovani di belle speranze in transito, arrivati da pochi mesi e comunque non stanziali. Ne ho conosciuti di certi che sembravano prodotti con lo stampino: completo scuro in grisaglia o tasmania, cravatta a pois a punta di spillo, foraggiati dal papà e che, pur di infiorare il proprio curriculum con l’esperienza d’oltreoceano, si sottoponevano a sfruttamento gratuito vagheggiando il premio di un’improbabile estensione del visto. – Eh, sa, Gianluigi resta in America un altr’anno, core de mamma!

Non credo, inoltre, che il senso di spaesamento a cui mi riferisco arrivi a cogliere appieno le famiglie al seguito di quelli che sanno la loro posizione transitoria. Tuttavia concedo qualche crisi adolescenziale negli eventuali figli, o in un coniuge che si rifiuta a priori di integrarsi, visto la probabile precarietà della situazione.  Penso agli altri. Per quelli che hanno messo su famiglia nel distretto e dintorni, la fluidità dello spostamento è un punto più nevralgico e problematico.

Globalizzazione o meno, il trasloco per noi risulta sempre in vetta alle classifiche tra le cause di stress. Tuttavia, cambiar casa all’interno degli Stati Uniti non è poi così tragico.  Le grandi catene di vendita al dettaglio ci fanno ritrovare gli stessi prodotti coast-to-coast.  Ultimamente tra i prodotti etnici fanno bella mostra di sé anche certi prodotti made in Italy.  Se proprio ci sentiamo in crisi di astinenza Il mercato on-line ci consegna a domicilio improbabili confezioni di paté di olive e tarallini pugliesi made in New Jersey.  Il senso di spaesamento – dicevo – ci può anche assalire, ma ce lo facciamo andar giù e poi via a festeggiare in Italia tutte le feste comandate che il portafoglio permette.

Mi viene adesso in mente quel senso di spaesamento provato dalle Chicane, giovani donne americane di seconda generazione, perchè figlie di quegli emigranti messicani per nazionalità, ma già loro stessi frutto di frammistioni di indigeni – the real deal – e di spagnoli. Donne assimilate alla cultura americana portante, eppure cresciute scoprendo di essere in bilico tra due (forse addirittura tre) culture, con la voglia di appartenere ad entrambe ma in qualche modo da esse mai completamente accettate.  Le chicane sono quelle che per definizione hanno raggiunto la consapevolezza di essere due cose e nessuna, cosa che ha fatto nascere in loro il coraggio di lottare per il proprio essere così, per farsi strada in un mondo che si dichiara inclusivo ma che molte volte mantiene lontani dalla fruizione piena e della condivisione quei gruppi tradizionalmente avvertiti come diversi.

Questo mi porta anche a pensare ai fatti di Parigi.  Ora io non sono dentro i problemi delle banlieue degradate, ma penso anche ad una doppia discriminazione subita dalle donne discendenti di algerini e marocchini in quelle zone. Il loro spaesamento coincide, credo, con una mancanza di identità che forse ora, dopo la violenza urbana del 1979 a Lione  del 2005 e del 2015 a Parigi, si è ammantata di un surrogato religioso che forse cerca di restituire loro una identità che il passaporto francese dà solo su carta. Noi italians in DC siamo lontani anni luce dai nostri connazionali arrivati qui col vapore, le tradizioni italiane che sono state trapiantate qui, pure se distorte, non sono le nostre.  Noi siamo diversi, culturalmente forti, socialmente ammirati ed abbastanza elastici da accettare o respingere influenze locali.  Eppure, una certa contaminazione ci pervade, non riusciamo a restarne immuni, a non farci avviluppare dal politically correct che imperversa da queste parti, tanto che, durante i nostri più o meno lunghi soggiorni nel Bel Paese, i connazionali ci appioppano subito il soprannome canzonatorio che segna quella invisibile linea di confine tra il nostro spaesamento al contrario e il loro quotidiano. E così il nostro destino è segnato. Alla faccia della globalizzazione, invece di amalgamarci in un tutt’uno, subiamo l’ironica esperienza del doppio spaesamento: pesci fuor d’acqua presso l’una o l’altra sponda.

[la foto in b/n è di Anton-Giulio Bragaglia-09 Poly-physiognomic of Umberto Boccioni- 1913]