Ci sono certe professioni che impongono una costante attenzione agli accadimenti globali: sempre in ascolto, sempre informati. Poi arriva un momento, sarà la primavera o una qualsiasi altra congiunzione astrale che qualcosa ci impone di staccare la spina. Quando raggiungiamo quel cosiddetto information overload dove anche le orecchie gridano: “Basta!”, sentiamo un bisogno fisico di lasciare fuori tutto il resto. Non credo sia egoismo o superficialità. È che a volte sembra proprio che il mondo abbia perso il lume della ragione. Ebbene a me è successo in uno di quei momenti più cupi, quando ho reagito e deciso di riconnettermi alle mie radici, recuperando un metodo di cottura ormai obsoleto, ma che rappresenta quello che ho individuato come un esercizio di pazienza.
Nei ricordi un po’ sfocati della mia infanzia condivisa con una nonna d’altri tempi, risuonano certe sue parole, suggerimenti, segreti e pratiche culinarie, che si tramandavano da madre in figlia, facenti parte di una economia domestica ormai praticamente messa da parte. Nel ricordo le parole risultavano anche distorte, e infatti solo dopo anni ne ho capito il vero significato.
Mia nonna suggeriva di non usare mai un utensile in metallo durante la cottura dei legumi, ammonendomi con un “altrimenti incrudeliscono”. Nella mia fantasia di bambina immaginavo un esercito di fagioli cattivi che si animava minaccioso, alla stregua di note musicali come in certi lungometraggi animati che popolavano il mio immaginario infantile. Come ho detto, solo dopo lunghi anni ho capito che in realtà – e per non so quale arcana alchimia- i legumi reagirebbero al metallo indurendosi (dunque incrudiscono, spiegato l’arcano, o incrudoliscono, secondo gli ammonimenti atavici). Pensavo che il segreto per una perfetta cottura fosse tutto lì e giustificavo la tediosa lunghissima cottura, mai completa, dei ceci, nei miei primi tentativi culinari alla cattiva qualità dei nuovi incroci o che so io -dei famigerati OGM; cosa che per diversi decenni mi ha fatto protendere verso i legumi in scatola, benché biologici – perché anche i surgelati mantengono a mio avviso una buccia fastidiosamente dura. Già allora mia nonna aveva modificato l’attrezzatura necessaria aggiungendo, col tono da C’era una volta, che i realtà i legumi si sarebbero dovuti cuocere nelle pentole di coccio. Negli ultimi dieci anni ho piacevolmente scoperto che in Italia esiste ancora qualche vecchina che si prende la briga non solo di comprare i legumi secchi ma di cuocerli, appunto, in una pignatta in coccio, rimestandoli, all’occorrenza, con un mestolo in legno.
Arrivata nel ‘Nuovo mondo’ ho proseguito con l’uso dei legumi in scatola, finché un bel giorno, in uno di quei negozi che vendono di tutto un po’, dove non puoi mai entrare con un’idea precisa su cosa acquistare, ma ci vai per perder tempo, o per l’esigenza di recuperare la dimensione ludica della caccia al tesoro, ebbene, un bel giorno, dicevo, in bella mostra tra gli oggetti più disparati, intravidi una pentola in coccio con tanto di Made in Italy stampigliato sotto il fondo. Sarà stata una botta di nostalgia ma voilà, la pignatta finì nel carrello. Così, punta da un’acestrale vaghezza acquistai l’oggetto forse in vendita per chi, come un arredatore d’interni, avrebbe acquistato un elemento di arredo per un cliente facoltoso quanto inesperto.
Per alcuni mesi rimase, infatti, relegata in un angolo nascosto della mia inadeguata cucina, lucida pignatta, intonsa e dimenticata finché, in un altro raptus salutista, non comprai alcuni sacchetti di legumi No GMO organic e magari anche blessed by qualche Maria di Guadalupe. Ma anche in quel caso ci volle un po’ di tempo prima di cimentarmi in singolar tenzone.
A dirla tutta nella tradizione orale si raccomandava anche di passare uno spicchio d’aglio sul fondo della pentola prima di usarla la prima volta per evitare che crepi, ma forse è un retaggio di qualche pratica superstiziosa. Io la uso su un famigerato fornello a induzione elettrica e non si è mai danneggiata.
L’esercizio di pazienza a cui mi riferivo consiste nella procedura da seguire per la preparazione dei legumi. Per chi non lo sapesse i legumi secchi vanno fatti rinvenire in acqua per tutta la notte, o comunque per molte ore. Dunque non crediate di poterli servire per cena senza aver maturato la decisione almeno il giorno prima. Per chi lavora fuori casa si consiglia di invertire l’orario e metterli a bagno al mattino, ma so che molti hanno i minuti contati e non fanno neanche colazione, figurarsi preoccuparsi per la cena a quell’ora antelucana!
Una ricerca su antichi testi mi ha rivelato che la tradizione canonica imponeva di usare acqua piovana perché povera di minerali, ma è una pratica che sconsiglio, soprattutto quando non sappiano cosa cade dal cielo. La pignatta va coperta e sorvegliata mentre l’acqua raggiunge il bollore, eliminando la schiuma che si forma in superficie. Ultime mie letture di ambito vegano consigliano di usare la suddetta schiuma per non ricordo cosa, forse impiegarla al posto dell’albume d’uovo sbattuto per ricette che richiedano una sorta di spuma. Io mi limito ad eliminarla. Fate un po’ voi. Bisogna fare attenzione a che l’acqua non trabocchi, dunque è importante regolare la temperatura della fonte di calore. Aggiungo solo che da allora i miei ceci risultano cotti al punto giusto in circa un’ora e sono ottimi nella minestra, o usati per un hummus da far paura e senza additivi. Li cuocio senza sale che aggiungo successivamente, ma questa è un mio libero arbitrio.
Morale: in un mondo frenetico fa bene rallentare, sia pur per cuocere dei ceci. L’intero processo vi libererà la mente. Felicità è una pentola di coccio.