di Pandora Falasfoglia –
Noi italiani siamo abituati ad essere circondati dal bello. Quasi non ci stupiamo più dell’imponenza degli edifici che i nostri antenati ci hanno lasciato. In Francia i turisti fanno la fila per condividere lo spazio che forse vide per una volta il conte di Guisa sostare su una solitaria sedia superstite, in un per altro spoglio castello della Loira, per non parlare del turismo didattico che si accontenta di mostrare a torme di studenti in gita riproduzioni di punte di freccia di tribù ormai estinte. In Italia, di là della piaga di un turismo distratto del tipo mordi e fuggi o dell’oblìo stesso dei nostri concittadini, resta comunque l’arduo compito di preservare l’arte del passato per i nostri nipoti, cosa tutt’altro che facile. È di qualche giorno fa un articolo che evidenzia un aspetto di questo problema di difficile soluzione. (vedi http://www.ilgiornale.it/news/mastro-trullaro-cerca-allievi-nessuno-resiste-troppa-fatica-1516226.html)
Quando pure si riescono a reperire fondi regionali per il restauro di manufatti entrati a ben diritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO, mancano le maestranze. Uso questo termine perché manovalanza ha acquisito un’accezione negativa. Maestranze: chi con maestria si presta a preservare i trulli, strutture dal sapore antico o a perpetuarne la tradizione, rispettando le tecniche di costruzione che affondano le radici nelle fabbriche circolari e/o coniche che rimandano alla Θόλος dell’antica Micene e ai nuraghi della Sardegna, passando dai trulli della valle d’Itria e delle zone limitrofe. Ebbene si, questi maestri trullari sono richiestissimi perché c’è penuria di mani esperte. Infatti è un certosino lavoro di martello quello che favorisce l’incastro delle pietre senza tagliarle in alcun modo. Si usa pietra locale, raccolta scavando nel terreno calcareo diffuso nella parte centrale della Puglia (vogliamo parlare di sostenibilità ambientale?) e la si posa (in origine senza alcuna malta) scegliendo di volta in volta la forma che meglio si adatti alla struttura. É un lavoro che si apprende facendolo, (ora che anche i teorici della didattica hanno riscoperto l’importanza dell’experiential learning) ma non si trovano giovani che resistano per più di un paio di giorni a maneggiare le pietre e non esiste più una cultura di supporto che gratifichi il grande sacrificio fisico.
Il trullo, nato come casupola utilitaria per deposito degli attrezzi agricoli e per il ricovero temporaneo dei contadini, eredi dei servi della gleba, è in se stesso un perfetto organismo architettonico realizzato risolvendo un importante problema di statica e sfruttando con ingegnosa maestria la natura geologica della zona, formata da colline aride, ricoperte in parte da un manto di roccia calcarea che si sfalda in strati di spessore diverso così da poter fornire lastre a facce parallele e lisce. Benché considerati un tempo costruzioni precarie, negli anni i trulli hanno subìto imposizioni fiscali onerose e altri vincoli legali che imponevano questo o quell’altro capriccio del nobile di turno, incluso il divieto di una proliferazione oltremisura, a suono di editti di retaggio feudale. Oggigiorno, però, c’è chi (anche stranieri) con lungimiranza ha colto un’opportunità imprenditoriale. Alcuni trulli ristrutturati ad arte sono stati trasformati in agriturismi, altri sono diventati la casa per le vacanze di diversi italiani. Ancora per poco? I mastri trullari sono rimasti in pochi e i giovani preferiscono fare altro. Dovremo rassegnarci a vederli crollare? Per fortuna alcuni sono in piedi da quattrocento anni, al contrario di alcune costruzioni spacciate per antisismiche…