Nella mia ultima riflessione avevo citato il libro che stavo leggendo in quei giorni d’ozio di fine anno, in merito all’inganno e all’artificio del tempo. Ora, a lettura terminata, vi propino quest’altro spunto di riflessione. Diciamo subito che Vita di Pantasilea non è un libro da spiaggia. Parlo per me che l’ho letto sotto il sole di bella Naples in Florida. Ma temo che, anche in un contesto diverso, che so, rallegrata dal crepitio di un bel fuoco nel camino, la storia non avrebbe, comunque, incontrato il mio orizzonte di attesa e spiego subito perché.
E’ ormai un vezzo degli autori muovere il discorso su due o più piani, saltando da un punto di vista all’altro così come si alternano i capitoli e, una volta decodificato l’artifizio, posso anche farmelo piacere. Tuttavia mi sono sentita tradita perché, dal sottotitolo – L’amore, l’arte e il coraggio di una donna nella Roma assediata dai lanzichenecchi – pensavo fosse un affresco di vita romana un po’ diverso. A discolpa dell’autore potrei concedergli che il coraggio delle donne nel ‘500 avrà avuto parametri diversi dai nostri, figlie delle lotte femministe di qualche secolo più avanti. Forse quello che mi aspettavo era una biografia più che un romanzo storico, ingannata dal titolo fuorviante, che pure si adatta al periodo, proprio perché il Cinquecento poggia su due secoli di esperienza con detto genere letterario.
Ciò che maggiormente non sopporto nei romanzi storici è la dubbia aderenza alla realtà. Magari troppo avvezza ai saggi, dove la veridicità delle fonti crea un minimo di sicurezza nella selezione operata dalla mia sempre più labile memoria su cosa immagazzinare e cosa cestinare, resto sempre in un bilico scettico mentre vedo, nel susseguirsi delle pagine, il dipanarsi dell’intreccio. Più volte mi ritrovo a chiedermi: “Sarà vero?”, “E’ possibile che sia accaduto proprio in questi termini?”
Passando poi alla minuziosa descrizione delle nefandezze dei Lanzichenecchi, l’ho trovata troppo cruda e, se veritiera, comunque inadatta al contesto di un libro di evasione. Ma poi, come avranno fatto a combattere agghindati in tal guisa, mi chiedo io (spunti per carnevale, anyone?).
Per par condicio denuncio, come parimenti brutali, le malefatte perpetrate dai cattolici, includendovi la dettagliata descrizione del ferimento al naso della nostra eroina, nonché la misericordiosa opera di sutura del medico Piovesan vanificata dall’accanimento dei carcerieri sulla stessa. E’ riuscito l’autore a suscitare empatia nel mio animo? No. Luca Romano non è riuscito a farmi calare nella storia. Ho letto il suo romanzo con un senso di distacco; forse mi ha solo permesso una riflessione su un periodo storico ammannitoci, negli anni dell’obbligo scolastico, come la rinascita della cultura italiana.
Un’abitudine inoculatami da un mio vecchio prof. di letteratura inglese, ultimo barone di una stirpe ormai svanita, è quella di ripercorrere, cartina alla mano, i luoghi in cui si svolge la vicenda, facendo scorrere il mio indice sulle strade percorse dai protagonisti. Ovviamente nelle note storiche – che avrei preferito in apertura – l’autore chiarisce i collegamenti tra l’antico impianto della Roma papale del periodo e quella attuale, con precisi riferimenti alla trasformazione toponomastica e a quella urbanistica avvenute nei secoli. Purtroppo la mia ignoranza sull’impianto attuale della città, non mi ha permesso di visualizzare una mentale sistemazione fantastica adeguata, a completamento della fruizione del testo.
Con fervente anticipazione e decrescente speranza ho, inoltre, cercato spunti mangerecci da tradurre in portate commestibili da condividere con le amate signore con cui discuterò sul tomo – di circa 500 pagine, per poi decretarne l’impossibilità, legata a problemi logistici, di gusto e d’ideologiche restrizioni alimentari.
Note positive? Per me, linguista per passione, è stata gradita la farcitura con frasi, presumo, tedesche, [considerato il processo di sistemazione e unificazione linguistica delle varie parlate teutoniche avvenuta in quegli anni grazie all’opera di Martin Luther] come gradito parimenti il modo in cui la gentile traduzione sia stata porta, però, dopo un po’, quasi a commento, e non sbandierata con l’orgoglio di un laureando neofita o come la certosina opera di un Associato stagionato, nelle note a piè pagina.
In chiusura riporto l’amara constatazione che l’autore ha espresso per bocca del comandante dei landskhnechten a pag. 447: […] la rovina dell’Italia è che gli italiani si disprezzano fra loro più di quanto temano il nemico comune. Preferiscono essere sconfitti che unirsi per combattere. Quasi come un vaticinio, oserei azzardare, che si è perpetuato nei secoli, giungendo fino a noi: parafrasando Giambattista Vico, la Storia, ahimè, si ripete. Rozzi e violenti i lanzichenecchi erano comunque sostenuti da convinzioni di matrice religiosa, ergendosi a giustizieri contro una società dissoluta e giunta a un livello di corruzione ampiamente illustrato nel testo. Che sia un avvertimento dell’autore ad aprire gli occhi? Nescio. Dopo questa mia, facite vobis.