Non so voi, ma io negli anni dell’adolescenza non avevo le idee chiare su cosa avrei fatto da grande, al contrario della mia amica del cuore. Lei voleva diventare un’insegnante di lettere e, alla bella età di cinquant’anni suonati, è riuscita finalmente a coronare il suo sogno diventando di ruolo nella scuola pubblica italiana [non per sua deficienza, ma per la mancanza di concorsi e per le farraginose procedure nelle graduatorie – a esaurimento, a scorrimento, a doppio canale ecc. che i vari ministri hanno introdotto e modificato nei vacui tentativi che chiamano la riforma della scuola, dove l’unico esaurimento che riguarda i docenti sembra essere quello da stress.
Ci sono dunque persone che intraprendono un cammino di crescita professionale sorprendentemente presto nella vita. Alla domanda cosa volevi fare da grande, non rispondono con “il pompiere”, o “il cameraman”, come una volta. É la seconda volta che ho sentito frasi tipo: “Io ho sempre voluto occuparmi di cooperazione allo sviluppo!”. Ammiro questo tipo di persone. Una volta deciso si è, per così dire, alla metà dell’opera. Si può stabilire il tipo di facoltà a cui iscriversi, il piano di studi, gli stage futuri ecc. Mi chiedo quali siano state le letture che le hanno viste impegnate negli anni della loro età evolutiva, sicuramente non quelle letture amene che suscitavano il mio interesse -a stare a quanto si leggeva nel libretto scolastico personale, che mi licenziò dalla scuola media di primo grado. Ma non è di me che voglio parlare. Ogni tanto ho il piacere di imbattermi in persone di questo tipo. Sarà che qui a DC confluiscono tra i migliori cervelli che il Bel Paese si è fatto sfuggire, perché qui convergono numerosi italiani che operano in settori di respiro globale.
In un rigido ma luminoso pomeriggio di dicembre, ho gustato un buon caffè in compagnia di qualcuno che mi ha aiutato a riconciliarmi con la Banca Mondiale. Mi spiego. Esiste in rete una corposa bibliografia che mette in guardia dall’operato di certe gargantuesche organizzazioni orchestrate da spietati Mangiafuoco. Se poi chiedete qua e là in Italia, la maggior parte della gente comune o non sa a cosa servano, o ne descrive le nefandezze, nella migliore delle ipotesi per sentito dire, formandosene dunque un’opinione su fonti di terza mano, il più delle volte strumentalizzate da questo o quell’indirizzo politico. Confesso che, io stessa, negli anni passati, facevo una gran confusione di ruoli e prerogative tra la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e compagnia cantante.
Come dicevo, a scaldare i rigori di un autunno piuttosto inconsueto, è stato il suo sorriso radioso a 180 gradi e il suo modo di porsi. Volendole affibbiare un soprannome la chiamerei Il sorriso che cammina. Me la sono vista comparire sorridente, pronta a spiegare, orgogliosa del suo lavoro nel campo, appunto, della cooperazione e sviluppo presso la Banca Mondiale. Paola Ridolfi, con laurea a Bologna, master a Washington e stage in Francia e a Dakar, si è fatta le ossa al consiglio d’Europa e dalla fine degli anni ‘90, ormai quasi vent’anni fa, è approdata alla Banca Mondiale per collaborare su vari progetti che l’hanno vista guadagnare esperienza e affidabilità. Paola Ridolfi, attualmente Country Program Coordinator per Costa d’Avorio, Benin, Burkina Faso e Togo, negli anni ha svolto lavoro sul campo principalmente nel continente Africano: in Mozambico e in Tanzania con progetti legati allo sviluppo urbano e idrico e per quattro anni in Mali; tutte zone difficili [ricordiamo nel 2015 l’attacco terroristico di estremisti religiosi nella capitale Bamako all’hotel Radisson]. Tuttavia, il suo fiore all’occhiello è stato sentirsi lì, mentre si creava la storia, quella con la S maiuscola, quando le vicende libiche hanno visto il corso della storia modificarsi in maniera radicale.
Credo che Paola sia entrata nella Banca mondiale negli anni che hanno visto un cambiamento semantico nel concetto di ‘riforma’. In Italia, purtroppo, è una parola che in molti associano a guai in vista; pensate alla succitata Riforma della scuola, per tacere di quella sul sistema pensionistico italiano. Tuttavia, con il nuovo millennio la Banca ha intrapreso una svolta epocale, appoggiando programmi e progetti tradizionalmente propri di altre agenzie di sviluppo. Certo una banca funziona con un meccanismo di prestiti e guadagna comprando e vendendo denaro ma Paola mi ha spiegato che l’appoggio della Banca Mondiale non è solo come un gigante dell’intermediazione tra i Paesi e le Banche, riguarda i contatti con i governi dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, garantendo un supporto tecnico e con erogazioni finanziarie che prevedono un diverso tasso d’interesse nella misura della propria capacità restitutiva; tanto per mitigare la diffusa convinzione sui fantomatici piani di aggiustamento strutturale, che hanno visto negli anni passati generare una voragine senza fine nel debito di detti paesi.
Le ho rivolto anche domande sulla tecnologia e sulle nuove economie. Su questo si innescano problematiche legate sia all’accesso alle fonti di energia che alla corruzione. Mi ha confermato che se la corruzione a livello governativo può essere presente, le procedure di controllo implementate dalla Banca, in parallelo all’applicazione di una sofisticata tecnologia, vengono continuamente testate e aggiornate mettendo sempre più al centro il miglioramento dei sistemi di controllo dei paesi, per ridurre la corruzione sui fondi stanziati per l’attuazione dei progetti. Ovviamente non è così semplice. Il limite nel successo dei progetti, tuttavia, non è la loro attuazione ma, in passato soprattutto, quando i progetti erano legati a grandi opere infrastrutturali, era costituito dalla maldestra programmazione del governo locale nel prevedere finanziamenti a lungo termine per la manutenzione delle opere realizzate con i fondi della Banca Mondiale.
Alla domanda: “E’ importante credere a ciò che si fa. Sei convinta che la Banca operi davvero per il riscatto delle popolazioni in cui il divario tra ricchi e poveri è in aumento? ” mi ha raccontato che negli anni dell’universita’ ha fatto parte di associazioni di volontariato e ONG molto critiche della Banca mondiale e di essere entrata per la curiosita’ di avere risposte precise. Non poteva essere un’organizzazione proprio così banalmente mostruosa! Le cose che si dicevano e scrivevano, anche in Germania, dove ha partecipato al progetto l’Erasmus, le sembravano molto superficiali e basate su giudizi più che su fatti. Si ritiene fortunata per essere arrivata alla Banca dopo una trasformazione importante che, grazie alle pressioni di movimenti internazionali, aveva portato ad un avvicinamento alla gente e ad una spinta verso obiettivi di riduzione della povertà e di uguaglianza. Questo cambiamento è ancora in corso e va nel verso giusto. Mi dice che ci sono sviluppi positivi perché in molti casi la povertà è stata ridotta e alcuni dei paesi a basso reddito stanno passando, o sono gia stati ‘promossi’, a medio reddito; alcuni sono persino passati da semplici beneficiari a finanziatori della Banca mondiale, come la Cina, l’India, e la Corea.
Incalzo: Esiste davvero un orizzonte di attesa in cui i paesi a basso reddito potranno offrire un futuro sostenibile alle proprie popolazioni? Questo si lega anche alle migrazioni e, ovviamente, all’impatto che il cambiamento climatico ha sull’ambiente. La Banca lavora anche in questi ambiti, mi sembra. Pensi che sia stata ‘spiazzata’ dalla svolta intrapresa da Trump sulle iniziative in campo ambientale?
Paola mi ha confermato che trova molto entusiasmante lavorare a contatto con realtà in continuo cambiamento, sia in una grande organizzazione in continua evoluzione, sia in paesi in crescita rapida dove le tecnologie arrivano saltando i passaggi e rivoluzionano la vita da un giorno all’altro. In particolare in paesi in conflitto, che ricevono sempre più attenzione dalla Banca Mondiale, come il Mali, la Repubblica Centrafricana, l’Angola in cui ha viaggiato appena dopo la fine della guerra civile. Mi dice che secondo lei la sfida più grande del nostro tempo è in corso di fronte ai nostri occhi con la crisi umanitaria e migratoria legata a violenza, insicurezza discriminazioni di genere e cambiamenti climatici. Paola è convinta che si tratti di un cambiamento epocale che richiede un lavoro molto più stretto tra operatori umanitari, come UNHCR e WFP, e operatori di sviluppo di lungo periodo, come la Banca Mondiale, per affrontare l’emergenza e trovare soluzioni a lungo termine. Il suo lavoro la porta a vedere direttamente i luoghi di origine di molte delle persone che approdano in Italia e in Europa e mi spiega che i fattori di spinta – condizioni climatiche, crescita demografica e mancanza di opportunità economiche – richiederanno tempo per essere affrontati; nel frattempo bisognerebbe che l’Europa si impegnasse a costruire piani di lungo periodo, invece di operare come se si trattasse di un’emergenza destinata a finire presto con soluzioni a carico soprattuttto a spese dell’Italia e dei paesi europei di frontiera.
Organizzazioni di questa ampiezza sono strutturalmente proiettate verso il futuro. Credo che alla Banca si parli di 2030. Pensi che sarai ancora un ingranaggio della Banca Mondiale in quella data?
“In questi anni, pur avendo lavorato intensamente, ho cercato, come molte donne fanno, di mantenere un equilibrio che permettesse alla mia famiglia di evitare traslochi destabilizzanti. Tuttavia sono pronta a decollare per qualsiasi nuova avventura mi si presenterà davanti.”
A chiusura di quel caffè che avrei voluto non finisse mai, le ho rivolto le solite domande di rito. La prima, su come userebbe la sua esperienza per invitare il governo italiano ad operare per aiutare anche gli imprenditori italiani. Mi ha parlato di esperienze positive attuate da alcuni imprenditori che hanno aiutato artigiani locali a condividere la loro maestria e tecnica orafa nella produzione di manufatti che sicuramente troverebbero un mercato; un altro esempio riguarda le stoffe -che la manifattura artigianale rende pezzi unici-dove una sinergia tra le parti potrebbe essere favorita dall’appoggio di un governo attento alle politiche di cooperazione allo sviluppo.
La seconda domanda, che credo i nostri giovani vorrebbero rivolgerle avendone l’opportunità, riguarda la propria preparazione personale, cosa li renderebbe soggetti idonei per lavorare nella cooperazione allo sviluppo. Come italiani portiamo una ricchezza che altri non hanno e che viene da una società coesa e integrata, favorita dalla scuola pubblica, purtroppo messa a rischio dall’ineguaglianza crescente. È chiaro dai suoi discorsi che una carriera così non s’improvvisa e, a parte la tenacia, mi ha confermato l’importanza di cercare esperienza sul campo, anche come volontariato, attraverso agenzie che operano sul territorio dei paesi in sviluppo, per acquisire altre capacità tecniche specifiche. Ad esempio rivolgersi ad ONG internazionali, e agenzie di sviluppo -perché no-di altri paesi europei, ma anche essere attenti e ‘rubare’ sul territorio, l’esperienza di volontariato dei padri missionari, i Salesiani, i Comboniani ecc. Teoria e pratica, dunque. Vi ho detto che parla più di quattro lingue?
Affrontando il gelo del ritorno, che ha visto numerose tende da campeggio spuntare qua e là sui giardinetti cittadini – una città non immune da forti contrasti sociali – riflettevo su quello che stavo portando a casa: una determinazione stemperata nella dolcezza di parole vibranti di speranza. La speranza di chi crede davvero in ciò che fa. Speranza che vorrei attraversasse l’oceano, eastward ho!