Di Maura Guida Maffia
[Questo brano inedito è stato letto durante le Serata di Letture 2014 di ParoLab, il club del libro di Italians in DC.]
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La casa, dove la vidi la prima volta, era così piena di gente, che mi ci volle parecchio prima di accorgermi della sua presenza. Era seduta in un angolo, in penombra, silenziosa davanti a un grande televisore, che trasmetteva un programma che non le si addiceva, una partita di football: una telecronaca serrata, spettatori che urlavano sulle gradinate, azioni veloci, ma i suoi occhi erano sicuramente altrove, con il viso a testimoniare l’assoluta noncuranza per tutto quello che avveniva in campo.
Incuriosita, mi ero fermata a osservarla: era vecchia e sola in mezzo a tutte le persone che le giravano intorno, non provava interesse per quello che succedeva in quel mondo reale, che avrebbe potuto accoglierla, se solo avesse voluto, e rimaneva incollata allo schermo per veder passare il suo tempo, come se ne avesse ancora molto davanti, o come se qualcuno avrebbe potuto restituirle quello sprecato.
Il suo sguardo spento mi era rimasto impresso nel corso dell’intera giornata, nonostante avessi avuto posti da scoprire, e molto da conversare con i nuovi amici. Era la prima volta, dopo tre anni di permanenza negli Stati Uniti, che mi capitava di essere accolta da una famiglia italiana, e di ritrovare atmosfere che mi riportavano lontano da dove mi trovavo, non solo geograficamente, ma addirittura temporalmente, forse al periodo dell’adolescenza.
E’ strano come il tempo passi con un ritmo personalizzato, quando si lascia il proprio paese e ci si trasferisce altrove, ma è comunque vero, che nelle case di chi trascorre all’estero la propria esistenza, la vita è datata con l’anno di partenza, più che con quello del calendario. A Gloucester, il piccolo paese del New England, poi, la sensazione di trovarsi in un‘ era imprecisata, si avverte con maggior forza, perché un gran numero di abitanti è di origini siciliane, e ripropone, nella sua quotidianità, immagini inconsuete per il duemila.
Riflettevo sulle contraddizioni che avevo percepito, mentre tornavo per la cena, e ritrovare la vecchia ancora al medesimo posto mi sembrò la più grande di tutte. Nella sala spaziosa, dove l’intera famiglia trascorreva la maggior parte della giornata, c’era un’incredibile confusione: bambini che giocavano a rincorrersi, donne che preparavano da mangiare, amici e parenti, passati per un caffè, e poi rimasti a chiacchierare, ma soprattutto un’altra televisione, che a volume piu’ alto, trasmetteva il telegiornale italiano, sollecitando i commenti e le osservazioni di ognuno di loro.
Ero passata a salutarla, ma la mia presenza non l’aveva assolutamente distratta dal gioco a premi di Channel Five. Mi aveva scrutato per un attimo, come se non mi avesse mai visto prima, e per la quarta o quinta volta, nello spazio di poche ore, mi aveva chiesto: “Chi sì?”, senza ascoltare poi la risposta.
Forse temendo che mi offendessi, la figlia si era premurata di spiegarmi che faceva così con tutti… “ Sta sempre davanti a quella maledetta cosa, senza capire assolutamente niente. Sono ventisette anni che vive in America, che si alza la mattina e accende Channel Five, fino alla sera quando va a letto. Neanche segue, perché non parla inglese, ma guai a cambiarle la stazione, fa come una pazza. Tutti sostengono che ascoltando si impari la lingua, lei è la dimostrazione che non è vero… anche una parola al giorno, ora avrebbe dovuto parlare meglio di un avvocato. Quando era vivo mio padre, poi, era una vera comica: restavano in due piazzati lì per ore e ore, con il volume alto, perché lui era anche sordo, e comunque non sentiva lo stesso, e lei interpretava le immagini e gli raccontava cosa dicevano. Ma non era la storia vera, era una inventata, che si adattava perfettamente alle immagini che il marito stava vedendo. A volte era proprio un gioco di fantasia, dava una versione che avrebbe sorpreso anche chi aveva scritto il film, perché con le stesse scene, poteva raccontare tutta un’altra cosa.”
“Ma se non parla inglese, perché non guarda la televisione italiana, avete il satellite?”
“Perché non trasmette su Channel Five… abbiamo provato a imbrogliarla, ma non c’è stato verso, se ne accorge e cambia. Chi lo sa… forse si diverte a non capire.”
Quest’ultima frase mi aveva fornito la chiave di lettura dell’enigma, e mi aveva fatto vergognare della banalità della mia domanda. Non era poi così difficile intuire quanta sofferenza ci dovesse essere dietro il rifiuto di intendere e di partecipare, e che forse la sola consolazione, in una solitudine così totale, potesse essere rappresentata dalla libertà di sognare.
La vecchia aveva chiuso il suo tempo, la sua terra, i suoi ricordi, e la sua vita, dentro quella scatola, e così riusciva ancora a governarla. Ci aveva messo un titolo: Channel Five, e questa era l’unica rassicurazione. Aveva speso molte energie per conseguire questa certezza, e qualunque interferenza esterna era ora avvertita come una minaccia, come la possibilità che qualcuno intendesse sovvertire l’ordine che negli anni aveva saputo creare.
Ero come ipnotizzata da lei, dall’alone di mistero dal quale era avvolta, da quel mondo di cartapesta che controllava attraverso lo schermo. Seduta al suo fianco, la osservavo mentre la sua mente volava lontana, e cercavo di immaginare i sentieri che percorreva per tornare a casa. Nessuna emozione trapelava dal viso rugoso, come se non ci fosse vita ad animarlo. Le immagini si susseguivano sullo schermo, ma nessuna di queste era in grado di penetrare dentro di lei. Sembrava guardasse al di là, oltre uno spazio conosciuto, dove solo a lei era consentito l’accesso.
Non volevo chiedere, ma speravo che mi parlassero di com’era, quando era arrivata in questo paese. Certo gli anni non dovevano averle giovato. Era rude nei modi, poco socievole persino con i bambini, che scacciava, quasi temesse potessero aprire una breccia nel perfetto isolamento al quale si era condannata. Non aveva nulla della dolcezza della nonna, neanche nell’aspetto. Era rigida e inacidita dalla mancanza di comunicazione, e sembrava che niente avrebbe avuto la capacità di commuoverla. Con la figlia, che pazientemente si prendeva cura di lei, come fosse un’infante, assumeva un tono imperioso e autoritario, che lasciava sottintendere l’impossibilità di perdonarle di averla strappata alla “sua” Sicilia. Era stato per rivederla, che dopo alcuni anni di lontananza, a seguito del marito, l’aveva raggiunta negli Stati Uniti, abbandonando la casa, i parenti, gli amici, le abitudini di un’intera vita. Ma quella figlia, quell’unica figlia, aveva bisogno dei suoi genitori, di qualcuno che la aiutasse ad affrontare la vita in un paese straniero, che la consigliasse, che le insegnasse a crescere i propri bambini. Il senso di responsabilità aveva prevalso, e così erano partiti, incontro al nuovo mondo, che si era rivelato piu’ ostile di quanto previsto. Carlo, suo marito, aveva trovato il modo di adattarsi, era entrato a far parte della numerosa comunità italiana di Gloucester, e aveva sempre qualcuno da andare a trovare, o qualcosa da fare. Lei, invece, passava in casa le giornate, aspettando il suo ritorno, per farsi raccontare da lui cosa accadeva in quel paese che quasi non conosceva. Poche volte era uscita, anche solo per fare la spesa, ma quella lingua così difficile e impronunciabile, l’aveva convinta a desistere. Si sentiva ridicola, alla sua età, a non saper parlare, e allora aveva cominciato a evitare tutte le occasioni nelle quali si sarebbe trovata in imbarazzo. Ma ora che lui non c’era piu’, non le restava niente da attendere, solamente il proprio turno per essere sepolta, e per riposare insieme, in una terra sconosciuta.
Il passato le aveva insegnato cosa poteva aspettarsi, e lei aveva deciso di rinunciare a vivere in un mondo che in ogni momento ti può deludere e ferire. Nel completo isolamento, al riparo dagli avvenimenti, aveva conquistato lo spazio dei ricordi, e in quelli trascorreva gli anni che ancora la separavano dalla fine.
Con il passare delle ore, il pensiero della vecchia, era diventato per me un’ossessione. Avevo intuito il suo segreto, e ora volevo svelarlo, perché sapevo che in quello era racchiusa una storia diversa da ogni altra. All’interno della casa, sembrava che nessuno si accorgesse di lei, altro che per commentare ironicamente i suoi comportamenti. Era circondata da attenzioni formali, anche da affetto, ma non uno di loro si interrogava sul perché’ delle sue scelte. E così, anno dopo anno, la sua identità si era gradualmente affievolita, fino a consentirle di tramutarsi in un essere invisibile. Su quella poltrona aveva lasciato il suo corpo, ma la mente era totalmente libera di spaziare, di riattraversare quel maledetto oceano, che suo marito le aveva fatto percorrere. Sicuramente ricordava bene tutta quell’acqua, che l’aveva accompagnata nel lungo viaggio, e ora io riuscivo a cogliere un mutamento nell’espressione dei suoi occhi, quando lo schermo proponeva immagini riconducibili a questa esperienza. Il mare era il suo elemento, proveniva da un villaggio di pescatori, ma allora il suo rumore era dolce, e le sue onde non incutevano paura.
Forte della mia scoperta avevo provato a parlarle, a commentare quello che stava guardando, ad associare miei ricordi, sperando che potessero funzionare da stimolo, a porle domande, alle quali non ebbi mai risposta. Nient’altro che il laconico “Chi sì?’ ero riuscita ad ottenere, e uno sguardo sempre piu’ sospettoso, come se si stupisse che io potessi vederla. Era abituata a una dimensione da fantasma, e la mia presenza non era contemplata nel mondo silenzioso che si era creata. Lei lì era sempre stata sola, e intendeva rimanerci. Finalmente capii, che ogni parola pronunciata, equivaleva a un ostacolo che frapponevo tra noi. Se volevo tentare di accedere ai sogni che custodiva così gelosamente, dovevo accettare un diverso livello di comunicazione, e soprattutto rispettare le sue regole.
Mi sedetti vicina, poco in disparte, perché’ la mia presenza non fosse invadente, e cercai di tenere gli occhi fissi sullo schermo, in modo che il mio sguardo non le pesasse. Fingeva di non accorgersi di me, ma controllava ogni mio respiro. Sicuramente aspettava che le chiedessi qualcosa, per opporre resistenza, ma io rimanevo in silenzio, come dimostrazione di ubbidienza, e forse, senza averne coscienza, lei cominciava ad accettare di avermi al suo fianco. Non saprei dire per quanto tempo mi lasciò ad attendere, come se volesse misurare la mia capacità di sopportazione. Nascondeva un tesoro dietro al suo mutismo, e non voleva dividerlo con chi non lo meritasse. Doveva assicurarsi di potersi fidare, e a suo modo, mi metteva alla prova per conoscere la mia natura. In alcuni momenti, avevo la sensazione che stesse per parlarmi, per chiedermi perché’ fossi lì, ma poi quella possibilità svaniva, e lei si rinchiudeva ancora di piu’ dentro se stessa, e in stretto dialetto siciliano, pronunciava parole incomprensibili, che forse significavano lo sgomento di sentirsi accerchiata.
Ero entrata nel suo territorio, questo lo sapevamo tutte e due, qualcosa doveva accadere.
Alle dieci di sera, del giorno dopo, eravamo sole nella stanza illuminata unicamente dal bagliore del video, che trasmetteva un film. Non riuscivo a ipotizzare una circostanza piu’ propizia, soprattutto perché’ non avrei potuto rimandare la mia partenza oltre la mattina seguente, e quella era una delle ultime possibilità che mi rimanevano. Lei, come sempre, era seduta nella poltrona, e guardava quel mondo ai suoi piedi, che come una regina poteva governare. Non so spiegare perché’, ma per la prima volta da quando l’avevo incontrata, avvertii con chiarezza che aveva lasciato aperta una porta perché’ io potessi entrare.
“Io non capisco bene l’inglese, avevo detto sottovoce, perché’ non mi aiuta? Mi sembra bello, potremmo seguirlo insieme”.
I suoi occhi, annebbiati dalla patina del tempo, si fissarono su di me, assumendo un’espressione indecifrabile. Non riuscivo a immaginare se stesse per cacciarmi, o se invece fosse contenta del mio atto di coraggio, e dopo una pausa, che mi sembrò eterna, disse soltanto “tutto sarà, a suo tempo”. Sembravano le sue ultime parole, invece erano l’inizio di un racconto fantastico.
Restai immobile, cercando di scoprire cosa avesse voluto dire, e dopo pochi minuti, sentii ripetere, dalla protagonista del film, la stessa identica frase. Allora non era vero che non capiva, doveva aver visto varie volte quella pellicola, perché anticipava parti rilevanti del dialogo, naturalmente in italiano, e addirittura mi aveva riassunto la storia di quest’anziana signora, che dopo oltre quarant’anni, era tornata nella casa dove era nata, per raccogliere i resti della sua famiglia, prima che le ruspe venissero ad abbattere l’edificio pericolante.
Forse una parte di me aveva intuito che la vecchia fingeva di non capire, anche perché’, per esperienza personale, sapevo che era impossibile rimanere ore e ore davanti al video, e non apprendere nulla. Ma ero comunque sorpresa. Nella migliore delle ipotesi, avevo immaginato che se lei avesse voluto parlarmi, avrebbe ripreso con me il gioco interrotto con il marito, e che mi avrebbe raccontato una storia differente da quella che le immagini proponevano. E invece, per un’altra mezz’ora, aveva continuato a tradurre perfettamente, senza il minimo sforzo, attenendosi alle sequenze, dimostrando un’assoluta padronanza dell’inglese. Poi, complice la storia, si era immedesimata nella donna della pellicola, e come per una dissolvenza cinematografica, ne aveva occupato il posto.
“Quel fermacapelli, ne avevo uno uguale, me lo aveva dato mia madre, poco prima di morire, e non me ne separavo mai, perché’ lei diceva che mi stava bene. Fino al giorno che decisi che non mi importava più di piacere a nessuno, e lo regalai all’unico uomo per il quale volevo essere bella, e che invece non dovevo più vedere. Si chiamava Vincenzo, era un giovane del mio paese, ma era povero, un povero pescatore, non adatto a una signorina di buona famiglia. Dovevo sposare un uomo importante, come infatti accadde, dovevo avere una vita felice, cosa che non è stata, questo pensava mio padre, e non gli importava di sapere cosa io desiderassi. Se la mia mamma fosse stata ancora viva, forse chissà avrebbe potuto aiutarmi. Lei era a conoscenza di tutto, e un pomeriggio, mi ricordo, mentre gli altri dormivano, aveva fatto in modo che potessi andare all’appuntamento. Fingemmo di recarci insieme in chiesa, e invece lei si era fermata a pregare per me e ad aspettare, mentre io raggiungevo la collina appena fuori dal paese. E Vincenzo era lì, sotto il nostro albero, come tutti i giorni, alle cinque, sperando di incontrarmi. Era un albero enorme, così alto che dalla cima si poteva vedere la linea dell’orizzonte, e lui si arrampicava per scorgermi da lontano. Solo poche volte ebbe la gioia di vedermi arrivare, non più di sette nel corso di due anni, ma non esagero se dico che una vita vale quei sette momenti di felicità.”
La osservavo mentre parlava dell’amore, sembrava un’adolescente. C’era una freschezza nelle sue parole, che non mi era capitato di ascoltare neanche nei dialoghi dei miei figli. Quei ricordi arretrati, così a lungo nascosti e ora finalmente rivelati, avevano aperto quegli occhi addormentati, che pochi giorni prima mi avevano tanto sconcertato, e ora lei sorrideva mentre mi parlava, rivivendo un passato che non era mai morto. Non sapevo se dovevo chiedere o tacere, e assistevo alla metamorfosi di quella donna, che improvvisamente non mi sembrava piu’ vecchia.
“L’ultima volta che lo vidi, era una notte rara, senza una stella nel cielo, e soffiava un vento caldo di mare nel mio giardino. Ero scesa tremante di paura, per concordare i dettagli del piano di fuga, che doveva essere anticipata. Era trascorso piu’ di un anno dalla scomparsa di mia madre, e la famiglia mi aveva annunciato che il periodo del lutto stretto era terminato, e che quindi avrei potuto sposare Carlo, l’uomo che è poi diventato mio marito. Non c’era piu’ tempo da perdere, dovevamo scappare e mettere tutti davanti al nostro amore compiuto. Forse non mi avrebbero mai perdonato, forse mi avrebbero scacciato come l’ultima delle disonorate, ma questo non era importante per me. Quello che volevo era seguire il mio sentimento, e assicurarmi una vita felice. Non avevo il coraggio di affrontare mio padre e i miei fratelli, cosa che peraltro a quei tempi non sarebbe stata possibile, quindi aspettavo che Vincenzo mi dicesse come e quando dovevamo agire.
Eravamo seduti dietro la casa, in un punto buio, dove nessuno avrebbe potuto scoprirci, e ci tenevamo le mani per farci coraggio. Poi lui mi aveva baciato, ripetuto il suo amore con parole così dolci che non confiderò a nessuno, neanche a te, e senza darmi la possibilità di replicare, mi aveva detto che non saremmo andati da nessuna parte. “Non voglio rubarti al tuo mondo, non ho niente da offrirti, e negli anni potresti odiarmi per la miseria alla quale ti condanneresti. Adesso pensi che io sia un pazzo, che il tuo amore possa superare ogni difficoltà… ma tu non conosci le difficoltà . Non puoi immaginare cosa si provi a non poter dare ai propri figli quello di cui hanno bisogno, non hai mai desiderato nulla e la povertà ti sembra romantica. Io so che non è così, che può essere molto brutta, e che per te sarebbe ancora peggiore, perché’ non ci sei abituata. Per questo domani partirò per l’America, come mozzo su una nave, e una volta lì ricomincerò la vita. Penserò a te ogni giorno, cercherò il tuo viso in tutte le donne che incontrerò, ma non tornerò più, non aspettarmi.”
“Avevo capito che era per sempre, e fu allora che gli donai il mio fermaglio, perché in quel momento sentii che stavo morendo, e non avevo più bisogno di essere bella. Se un giorno avrai una figlia, regalale questo, gli avevo detto tra le lacrime, e fa che lo porti, per ricordarti di me. Poi ero fuggita via, devastata dal dolore e dalla gelosia per tutte le altre che avrebbe incontrato, e che avrebbero preso il mio posto accanto a lui. Andava in America, dall’altra parte del mondo…”
A quei tempi, la vita non mi aveva ancora dato motivi sufficienti, per sapere che nessuna sorpresa è mai l’ultima, e certo non potevo immaginare, che anch’io, dopo molti e molti anni, sarei approdata nello stesso continente.
Tornai nella mia stanza come un automa, non sapevo più a chi dedicare l’esistenza, ora tutto poteva succedere, potevo sposarmi, come potevo lasciarmi uccidere, non faceva differenza, per me il domani era solo uno spazio temporale che avrei occupato per compiacere la famiglia. I due che avevo veramente amato, non c’erano più, mi restavano i ricordi, e fu da allora che mi abituai a vivere facendomeli bastare. Erano la mia compagnia, il porto sicuro, il luogo segreto, dove incontrare le ombre delle mie illusioni. Quella notte restai sveglia ad ascoltare il rumore del mare dalla mia finestra, avevo bisogno di parlare con qualcuno, di farmi consolare, e mai come in quel momento avvertii la mancanza di mia madre. Era come se fosse morta di nuovo, la chiamavo disperata, perché venisse ad alleviare il mio dolore, ma lei non poteva rispondermi. Forse mi sentiva, ma pensarlo mi faceva disperare ancora di più. Ero rimasta sola, come unica superstite in un’isola deserta, dovevo imparare a vivere in questa dimensione.
Nessuno si accorse allora, come nessuno si era accorto fino a oggi, prima che tu arrivassi, di dove io stessi nascosta, e questa è stata la garanzia della mia libertà. Né mio padre, né mio marito, né mia figlia, hanno mai nemmeno intuito l’esistenza del territorio segreto dove tutti i giorni potevo incontrare chi volevo. Quando ero in Sicilia, era meno evidente, la vita delle donne, di quelle della mia generazione, era così piatta e priva di emozioni, che anch’io sembravo normale. Da noi, soprattutto a quei tempi, la maggior dote per una ragazza era la riservatezza. Meno parlavi, meno ti interessavi a quello che accadeva fuori dalle quattro mura della tua casa, più eri considerata e rispettata. Credo che Carlo non si sia mai interrogato, in tanti anni, se lo amassi o no. Ero una sua proprietà: una cosa da esibire e di cui essere orgogliosi, una buona madre e una moglie rispettosa, e in quelle rare occasioni in cui eravamo tra la gente insieme, riuscivo anche a destare l’invidia dei suoi amici per i miei modi e per la mia avvenenza. Non si aspettava altro che questo, e sono certa che per lui il nostro matrimonio sia stato un’esperienza felice. Anch’io ho trascorso momenti sereni, perché mio marito era una persona buona e non mi chiedeva quello che non gli potevo dare. Ogni giorno pensavo a Vincenzo, mi immaginavo la sua vita, sognavo per lui il meglio che si possa augurare, e ripercorrevo il nostro amore, chiedendo a Dio la grazia di farmelo rivedere almeno una volta, prima di chiudere gli occhi. Mi ricordo come fosse ora, quando seppi che ci trasferivamo negli Stati Uniti. Pensai a un segno del destino, e mi preparai psicologicamente al grande incontro. Non credere, che fossi così ignorante da non conoscere l’ estensione del territorio dove stavo andando, ma almeno tra noi non ci sarebbe stato un oceano, ed essere dalla stessa parte mi sembrava consolatorio. Guardavo la carta geografica, chiudevo gli occhi, e puntavo il dito a caso su una città, sicura che lui dovesse essere proprio lì. L’ultima volta, toccò a Boston, e allora mi convinsi che veramente lo avrei ritrovato. Ero felice come non mi era mai capitato prima, ma dovevo stare ben attenta a non dimostrarlo. Tutti quelli che mi conoscevano, si aspettavano di vedermi disperata, e non avrei saputo spiegare perché’ invece succedeva il contrario.
Così siamo arrivati in America, e mi sono bastati pochi giorni per capire quanto le mie aspettative fossero insensate. Ho attraversato un momento di depressione terribile, perché avevo perso tutto, compresa la capacità di sognare. Il tepore dell’aria nelle notti insonni, la veduta della baia che aveva riempito i miei occhi, il colore dei tramonti che mi parlava di Vincenzo, non avrebbero più potuto consolarmi; le mie radici erano state tagliate e presto sarei avvizzita, come una pianta recisa. Fu allora che i miei cominciarono a pensare che a causa di questo viaggio io avessi perso la vita. Non ho fatto niente per dissuaderli, anche perché è troppo difficile, spiegare a chi non riesce a capirlo da solo, che la vita non si perde solo con la morte, che ci sono modi più degni per farlo, che a me era successo tanti anni prima, e che questa era solo l’ultima delusione.”
Non riuscivo a trattenere le lacrime per quel giovane cuore, intrappolato in un corpo di vecchia, e allo stesso tempo ero fiera di averlo aiutato a uscire dalla gabbia nel quale era stato ingiustamente rinchiuso. Tutto era stato detto, ora nella stanza rimaneva il chiarore del video, e il ronzio di Channel Five. Non avevo la forza di parlare, né di guardarla, e se avessi potuto, avrei tenuto a bada anche il respiro, per non interferire con le sue emozioni, che erano uscite dal racconto, e avevano assunto una consistenza propria. Sentivo la presenza di quei sentimenti narrati, degli amori smarriti, di una vita sprecata a rincorrere il sogno, e provavo gratitudine e affetto per quella donna, che aveva voluto regalarmi le sue illusioni segrete. Sarei rimasta immobile fino alla fine del tempo, se lei non si fosse alzata. Camminava lentamente, sorreggendosi con un bastone, per sopportare il peso di quelle parole che le erano piovute addosso senza preavviso, e si era diretta verso la televisione. Aveva passato la mano sullo schermo, quasi a carezzarlo, per farla scivolare fino al comando di accensione, e con un gesto deciso, aveva fatto tornare il silenzio. “Anche per te è arrivato il momento di riposare, aveva detto, parlando a quell’oggetto, dopo tutti questi anni…” Era un gesto definitivo, di cui però non riuscivo a cogliere il senso. Cercavo di indovinare lo stato d’animo che lo aveva generato, quando all’improvviso si era girata verso di me, e mi aveva ancora chiesto “Ma tu chi sì?”, con il tono burbero di colpo tornato.
Ero rimasta senza fiato. Mi aspettato tutto, tranne che risentire quella voce ostile. Forse avevo urtato la sua suscettibilità, facendo qualcosa di cui non avevo coscienza, o forse si era pentita di avermi messo a parte di un’intimità troppo profonda. Non sapevo come rimediare, e credo che sul mio viso fosse evidente l’imbarazzo, e il desiderio di scomparire dalla sua vista. Non avevo il coraggio di guardarla, mi sentivo in colpa per averla delusa, ma quando finalmente alzai gli occhi e incontrai i suoi, la vidi sorridere. Sembrava molto giovane in quel momento, e si compiaceva, perché’ ero caduta nel tranello che mi aveva teso. Nella voce si avvertiva l’eco di una risata trattenuta, quando aggiunse: “Dimmi come ti chiami, lo voglio sapere davvero.”
Non mi era mai capitato di pronunciare il mio nome con tanta timidezza ma quella notte, pensavo che solo lei avesse diritto di parola.
Lo aveva ripetuto due o tre volte, per ascoltarne il suono, per tenerlo a mente, e per essere in grado in seguito, di abbinarlo al mio viso, che ora non le era piu’ estraneo.
“Hai voluto conoscere la mia storia, aveva ripreso a dire, ed io te l’ho consegnata senza pudore. Credo sia giusto spiegarti il motivo che mi ha spinto a farlo. Come me, sei una donna, e puoi capire quello che ho passato, ma a differenza mia, tu sai parlare con gli uomini, sai farti ascoltare, e forse potrai spiegare a questi signori, quanti soprusi sono stati compiuti, nel corso degli anni, sempre per il nostro bene. Raccontala questa mia povera vita, condotta per mano dall’arbitrio di chi agiva per la mia felicità, perché’ altre ci si riconosceranno, anche se i tempi sono cambiati.
Ora sono molto stanca, ma prima di andare a dormire ho ancora qualcosa da fare. Accompagnami fuori, devo sentire il profumo di questa terra.”
Era giugno, con una calda brezza marina, che invogliava a fermarsi nel giardino addormentato. Il vento ci portava l’odore dei cespugli fioriti, delle alghe, delle onde dell’oceano, che si rompevano a pochi passi da noi… e lei ne assaporava l’essenza. Avevo la sensazione che per la prima volta, da quando era arrivata in quella casa, si stesse guardando intorno, e che volesse appropriarsi del territorio che non aveva mai degnato di uno sguardo. Quasi che all’improvviso si sentisse libera anche nel mondo reale, e potesse misurare la bellezza di quello che inutilmente le aveva fatto da contorno nel corso degli anni.
Non potrò mai più dimenticare, le emozioni che in quei pochi minuti vidi dipingersi in quegli occhi. Occhi assetati di immagini reali, attenti, curiosi ,e forse anche spaventati dalla bellezza di un mondo dimenticato. Occhi inumiditi dal rimpianto e dalla commozione, occhi che piangevano una vita lasciata trascorrere senza vedere. Anche il tono della voce, di quel momento magico, resterà impresso nel mio ricordo: sottile e profondo, colmo di speranza e di amore. Aveva espresso il desiderio che raccogliessi dei fiori per lei, e guidava la mia mano, scegliendone uno per uno, per comprendere l’intera gamma dei colori e delle fragranze. Poi, li aveva legati con un fiocco bianco e aveva preso la mia mano tra le sue, per tenermi vicina. E per ultimo, come a esprimere la più normale delle richieste, aveva detto:
“Siediti vicino a me, voglio che mi aiuti a contemplare le stelle.”
Ero rimasta con lei tutto il tempo che aveva voluto, e ora sola nella notte, vagavo per Gloucester, incapace di fermare i miei pensieri. Cercavo, nelle strade addormentate, tracce del mondo che mi aveva narrato, e in quella volta celeste, l’astro più luminoso che lei aveva identificato al primo apparire. Portavo con me il dolore e la felicità del lungo racconto, e provavo a impadronirmi delle sue e delle mie emozioni, che ormai erano diventate un tutt’uno. Mi chiedevo perché la natura degli uomini esige che la vita e l’infelicità procedano sempre insieme, come compagni di strada… mentre le sue parole si rincorrevano nella mia mente confusa, e quella voce lontana mi teneva compagnia nell’ora tarda. Guardavo l’oceano, e vedevo il suo amato paese della Sicilia, il sole, il mare, tutto quello che era stato all’origine della sua vita, e della conseguente disperazione.
Erano già passate le tre, quando rientrai in albergo, ma non riuscivo ugualmente a trovare sonno, e mi domandavo se anche lei fosse ancora sveglia, se come me continuasse a pensare a tutto quello che era stato, e a quello che il domani le avrebbe riservato. Come avrebbe fatto, adesso che il segreto della propria esistenza era stato svelato, a ricominciare a recitare l’odiosa parte che si era assegnata. Troppi sentimenti si erano liberati in una volta, e sicuramente avevano lasciato un segno indelebile sul suo viso. Aveva perso la maschera… o forse io l’ avevo fatta cadere. Chissà se in questo momento si sentiva libera, o spaventata dall’idea di dover accettare una nuova identità. Mi ritenevo responsabile dell’uragano che si era abbattuto su quella vita, ed ero preoccupata di come avrebbe reagito. Dovevo essere a casa sua prima che si alzasse, per garantirla e aiutarla nell’ approccio con il nuovo giorno.
Il sonno mi vinse mentre la ricordavo, e lei tornò da me nel sogno. Passeggiava per il lungomare al braccio di Vincenzo, non poteva essere che lui, le si leggeva negli occhi, e tutta la gente che si trovava a passare si accorgeva dell’armonia che li accompagnava. Avevano un passo spedito, parlavano fittamente, sembravano due ragazzi con i capelli bianchi. In quelli di lei, spiccava con evidenza un fermaglio di giada di foggia antica, che la rendeva bella, come mi aveva raccontato. In mano reggeva il mazzo di fiori che avevamo raccolto, come una sposa sulla strada dell’altare. Li guardavo incredula, finalmente insieme, spavaldi e al di sopra degli sguardi del mondo. Si avvicinavano per parlare con me, sorridenti… ma l’emozione mi svegliò.
Non potendo riprendere sonno, radunai le mie cose e preparai i bagagli. Alle nove ero di nuovo in strada, ansiosa di rivederla nella luce del sole.
Quella mattina la casa era silenziosa. La televisione spenta, i bambini a scuola, e chi si aggirava per quelle stanze, lo faceva evitando ogni rumore, per non turbare il riposo della nonna. Era considerato un fatto così eccezionale, che non fosse già davanti al video, che sollecitava la cautela di ognuno. Si parlava a bassa voce, per evitare che il suono potesse arrivare fino a lei, e ci si comportava come quando c’è un neonato che dorme più del previsto, godendosi la pausa che inaspettatamente ti concede.
Tutto sembrava diverso in sua assenza, guardavo la sua poltrona, e ricordavo le alterne fasi della nostra conoscenza. Mi era sembrata odiosa, e poi amabile, giovane e vecchia allo stesso tempo, e mentre la aspettavo, sentivo di essermi profondamente affezionata a lei, e cercavo le parole per poterlo dire.
Alle undici, la figlia era andata a portarle il caffè, e dopo un attimo mi aveva chiamato. La avevo raggiunta, credendo che avesse bisogno del mio aiuto per qualcosa che aveva dimenticato, e la avevo trovata in lacrime.
Sul letto, non c’era altro che il corpo svuotato di vita, e il mazzo di fiori. Aveva indosso una lunga camicia di seta bianca, sicuramente appartenuta al corredo, e conservata per un’occasione speciale, inutilmente desiderata. Sul comodino, le foto della sua terra, sul viso, la serenità di un universo ritrovato.
Solo in quel momento, mi resi conto che le preoccupazioni riguardo al domani, erano appartenute solo alla mia fantasia. Lei aveva previsto ogni cosa: sapeva che quella che avevamo trascorso insieme sarebbe stata l’ultima notte, e si era preparata al lungo viaggio con un sorriso.
Era volata via, ai piedi dell’enorme albero della sua gioventù, all’appuntamento con Vincenzo, per varcare insieme la linea dell’orizzonte.
Con sé, soltanto il profumo del giardino, e il chiarore delle stelle che aveva voluto conservare come ultima immagine.