Lo Strega che ammalia

Lo Strega che ammalia

La scuola cattolica è un libro scomodo. E questo al di là della mole del tomo in se stessa che ricorda il Rocci – a qualche liceale stagionato – e che ne impedisce una fruizione spensierata a quei lettori multitasking che consumano romanzi sul tapis roulant o ai più sfigati pendolari in attesa di un regionale che non passa mai in orario.
E’ un libro scomodo perché ti forza ad una lettura da biblioteca, con tanto di matita per le sottolineature e per i punti interrogativi che rimandano ad una ricerca allargata –grazie a Dio per i motori di ricerca!-
E’ un libro scomodo perché affronta temi scottanti e ancora bisognosi non di un dibattito aperto nella società odierna (basta talk show), ma di un ribaltamento di impostazione culturale, forse proprio a partire dalla scuola.
E’ tante cose, ma non è un romanzo. Non è un romanzo e non lo salva neanche la parte che l’autore dichiara frutto della sua fantasia. Anche il titolo è fuorviante. Non mi stupirei scoprire che sia stato coniato – con subdola maestria – da qualche titolista esperto in marketing.
Di cosa parla, dunque? Certo, lo abbiamo letto tutti nella seconda di copertina, il libro che mancava nella nostra cultura, con la benedizione sigillata dalla fascetta gialla che evidenzia la vittoria del Premio Strega (e ancora una volta mi chiedo: ma poi, questi premi che valore hanno?). Dall’alto delle mie prerogative di lettrice, dico che tuttalpiù si tratta di un saggio mancato; uno zibaldone terapeutico – nella migliore delle ipotesi- per il suo fattore. Certo, nel quadro di una lingua che va progressivamente imbastardendosi, ci fa illudere che la stessa abbia ancora qualche decade di vita, nel mare magnum di libri autopubblicati, in cui la sintassi è solo un’ipotesi facoltativa. Tuttavia non siamo in presenza di un giovane virgulto con davanti una promettente e fruttifera carriera, mentre gli attentati al bellissimo idioma sono quotidiani.
Cosa gli manca per essere un romanzo? Non suscita empatia, non regala emozioni, e non ci fa immedesimare con nessuno dei cento personaggi che si affastellano nelle quasi milletrecento pagine di autoanalisi. Lo stesso Albinati ha detto: “Volevo mostrare e capire come sotto la superficie del decoro stiano crimini e miserie. Volevo tirare i fili di quell’ambiente preciso in quel momento preciso: il quartiere Trieste a Roma nella prima metà degli anni Settanta, un quartiere della piccola borghesia cattolica. Volevo mostrare come il risentimento borghese, cioè della classe razionale per antonomasia, potesse accendersi in fiammate selvagge. Volevo mostrare lo sbalordimento di fronte a quell’infiammarsi. Ma il mio bisogno era liberarmene, non ricordarlo”.
Per chi, però, non è di Roma, la ricerca dei luoghi citati diventa una esercitazione da seminario universitario, dispiegata su 164 capitoli di varia lunghezza, ognuno materializzando il percorso di un discorso interiore a volte noto solo all’autore, a volte semplicemente reiterato (il femminismo, bla, bla ba, il femminicidio, bla bla bla, e via così). Altre volte si salta di palo in frasca, come se l’opera avesse subito tagli sanguinolenti e rimaneggiamenti a più mani, conferendogli quasi il rango di antologia pseudo saggistica che ci fa chiedere: “ah, vediamo oggi che gli salta per la testa…’ Ha fregato anche chi era stato attratto dal richiamo morboso del Delitto del Circeo perché tutto sommato aleggia, ma resta a margine. Se tanta parte ha avuto e ha segnato la vita del nostro, lo stesso non si è crogiolato in una descrizione dettagliata delle sevizie per soddisfare la perversione segreta di qualche lettore.
La lettura mi ha imposto una tabella di marcia ferrea: 30 pagine al giorno e, confesso, le prime 200 sono state le più dure da macinare. Certo, avrei potuto applicare i primi tre diritti del lettore stilati da Pennac e, a dire il vero, l’autore stesso, quasi a sfidare lo stacanovismo dei suoi lettori, invita a saltare le pagine in più occasioni. Invece no, ho solo rimandato ad una fase successiva la lettura degli aforismi –dichiaratamente partoriti da un suo professore – da lui raccolti nella parte nona del tomo. Come ho detto, esistono parti che vivono di vita propria e che somigliano più a saggi, se non fosse per la mancanza di citazioni canonicamente referenziate con note a pié pagina.
Anch’io ho frequentato una scuola cattolica, madri francesi in questo caso, e potrei narrare di episodi che segnano l’esistenza di pargoli in via di sviluppo. Posso solo reputarmi fortunata di non essere io incappata in violenza fisica diretta. Per quanto riguarda le mie tare esistenziali, vi rimando, perché no, al mio futuro romanzo di autoanalisi.
Stasera ci sarà un incontro con l’autore, a cui forse rivolgerò educate domande, come si conviene in un certo tipo di situazioni, ma non credo leggerò altri parti del suo cervello.
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Avevo scritto quanto sopra prima di incontrare l’autore e rivolgergli più di una domanda, presso una casa privata qui in città, graziosamente aperta per l’occasione, in quanto il libro è stato scelto anche dal Parolab di Italians in DC.
Personaggio gradevole, nonostante tutto. Mi sono trovata a riflettere sul divario enorme tra autore e opera. Amabilissimo, dicevo, a parte la linea difensiva da cui rispondeva alle poche domande degli astanti, visto che in molti siamo partiti, ma in pochi siamo giunti alla meta. Un ringraziamento per la disponibilità dell’ospite, quasi redarguita per aver confessato di avercela messa tutta, sforzandosi di leggere in poco tempo il più possibile (si leggeva tra le righe: ma chi glielo ha fatto fare?). Signora Franca, chiedo scusa io per lui. Chiudo segnalando un piccolo faux pas dell’ospite di onore che, aprendo il corteo intorno al buffet, si è guardato intorno, chiedendo del pane. Non rammenta che noi praticamente qui ci siamo tolti il vizio di mangiarlo?