Questo mio recente viaggio forzato coast-to coast mi ha permesso di terminare un libro che avevo comprato così, seguendo un impulso ed è di quel romanzo che vorrei parlarvi e vi spiegherò anche perché.
Nel 1977 uscì per i tipi di Einaudi e per il supporto di Italo Calvino l’unico romanzo di Nicola Pugliese, giornalista de iI Mattino di Napoli; romanzo che esaurì la tiratura in poco tempo e non fu più possibile la sua ristampa per il divieto opposto dal suo stesso autore. Divieto superato con la sua dipartita. Il libro sarà ristampato in Italia, si prevede, nella primavera del 2020. Per non so quale alchimia la versione tradotta in inglese è già uscita ed è quella a cui mi sono accostata. In aggiunta al supporto di Calvino – se mai ce ne fosse bisogno-in quarta di copertina appare quello di Roberto Saviano “A marvellous writer!” Si è sprecato, penserete voi. Ma, tant’è.
Ora certe coincidenze mi sono risultate un po’ intriganti. Ordinato su Amazon, mi è arrivato e l’ho subito iniziato a leggere il 23 ottobre u.s., data che coincide con la data in cui inizia la storia e vabbè, direte voi. Vabbè, aggiungo io. Il titolo, una sola parola: Malacqua, racconta una vicenda in cui Napoli resta sotto una pioggia incessante per quattro giorni, anche questa una strana coincidenza. Infatti pare che la città in queste settimane stia vivendo sotto gli effetti del cambiamento climatico, con piogge insolitamente violente e lunghe, se vogliamo tralasciare le parole della vecchia melodia napoletana il cui titolo- Chiove (1923)- è tutto un programma; e anche lì erano nove giorni che il Signore non levava acqua da terra, per parafrasare un famoso detto partenopeo…
Anni fa io decisi di leggere solo testi in lingua originale, restringendo forzatamente il mio campo di lettura all’italiano e all’inglese, perché, traduttrice anch’io, so quanti e quali sono i problemi legati alla traduzione. In questo caso però, la storia del divieto, la possibilità di arrivarci prima degli altri, sono stati la molla che mi ha fatto sgarrare dal mio proposito e bene ho fatto, per un certo verso. Eviterò che a uno scempio si dia troppa pubblicità – mi riferisco alla versione in lingua straniera.
Le tematiche del romanzo sono vere e attuali, ora come 40 anni fa, io ne sono diretta testimone. L’idea, sia pure estrosa, permette al lettore di riflettere e magari svilirsi per l’inamovibilità di certe situazioni incancrenite nel tessuto politico-sociale-culturale della città. Lascio dunque a voi la scelta se leggerlo o meno. Una cosa è certa: non mi sento minimamente di suggerirlo ai miei conoscenti monolingua inglese. Perché dico questo? La traduzione, secondo il mio personale parere, è pessima, nel senso che è troppo letterale e non rende in inglese il senso di ciò che è stato scritto in italiano. Il traduttore, di cui non ho letto altro, è un irlandese e forse avrà usato un inglese a cui non sono avvezza, ma lo ha reso pesante, oscuro, e impreciso. Il mio retroterra culturale (suvvia permettetemi un’espressione anni settanta) mi ha permesso di collacare ambienti e situazioni, e perciò avere una idea di cosa l’autore stesse parlando; tuttavia temo che i periodi lunghissimi e la totale assenza di dialoghi lo rendano ostico per la platea straniera. Tante volte l’ho messo giù per giorni, senza riuscire ad andare avanti per più di un paio di pagine e forse solo per la forzata immobilità della cabina aerea ho potuto portarlo a termine. L’elegiaca melodia dell’italiano che troviamo nel prologo:
“Ed attraverso il vetro della finestra grigi pensieri fumiganti ad inseguire il mare, Santa Lucia ristretta nelle spalle, le mani in tasca, ad ascoltare il silenzio del suo silenzio, le raffiche del vento che veniva, e queste foglie ritorte nella strada, dentro l’asfalto. Dalla strada solitudine graziosamente se ne discende al mare, con gozzi malandati, luci sfrangiate, e navi in lontananza, punta della Campanella, e Capri, la gran massa di Capri distesa a ricordare, estranea alla città come torre indecifrata, vicina sì, quanto vicina, e lontanissima, pure, con storie scolorite d’imperatori e donne, con cargo tremolanti dell’Oriente e dell’Africa, e granaglie, carichi di mais, ferro, sabbia dorata.”
viene maciullata in questa traduzione:
And through the windowpane steaming grey thoughts following the sea, with Santa Lucia huddled behind him, hands in his pockets, listening to the silence of his silence, the gusts of the coming wind, and those leaves twisting in the streets, down into the asphalt. […]
Ora, se io avessi sottoposto una tale versione alla mia mentore Branka, credo che avrebbe a malapena celato il suo disgusto. Non si può tradurre pedissequamente, traasciando le regole sintattiche della lingua di destinazione. Lo so che il buon Eco metteva in guardia sul fatto di dire quasi la stessa cosa, ma dicendo LA STESSA COSA, qui non si dice nulla.
Pugliese aveva anche creato un senso di attesa nel lettore “Che cosa succede? Smetterà mai di piovere? Cosa c’è dietro l’enigma di tre bambole e delle voci nel Maschio Angioino ?” che però viene annientata nella sua versione inglese che diventa incomprensibile. Un vero peccato. Chissà cosa ha fatto dire su The Financial Times al critico letterario britannico Ian Thomson ‘Nicola Pugliese was a writer who challenged the clichéd view of Naples as a city of gangsters, mandolins and “O Sole Mio” . . . His fiaba vesuviana (Vesuvian fairytale), superbly translated by Shaun Whiteside, is a beautiful and haunting exploration of life at a meteorological extreme.’
Superbely translated?? Fiaba vesuviana? A quanto pare mantiene il cliché.
Con questa sua imprecisione gli sarà sembrato dare un tocco esotico alla sua recensione, visto che il romanzo è rigidamente ambientato nei confini cittadini.
Concludo dicendo: mi permetto di dissentire e mi accollo tutta la responsabilità della mia affermazione.