Le scarpe sono sempre state usate a simbolo di qualche altra cosa. In inglese esiste l’espressione to stand in someonelse’s shoes, mettersi nei panni di un altro. Basta un paio di scarpe e prende forma l’idea dell’avventura, come cantava Nino Manfredi qualche anno fa. Non solo: le scarpe possono costituire un feticcio, l’estremo oggetto del desiderio.
Poco tempo fa circolava su Facebook la riflessione su come un paio di scarpe appropriato abbia la capacità di ribaltare il destino di una donna, come testimoniato ampiamente da Cenerentola e da Dorothy Gale. E’ vero. Se un paio di scarpe può far sognare, migliaia di scarpe cosa faranno? Pensate: una montagna di scarpe tutte insieme, ammonticchiate: il sogno di molte… e invece…
Abbiamo visto decine di documentari, video desecretati, film basati su testimonianze di sopravvissuti. Abbiamo letto la storia epurata di Anne, commentato Primo Levi, riempito pagine con esercizi di retorica negli anni della formazione; abbiamo applaudito Benigni e asciugato lacrime per la sorte dei Finzi-Contini, o per gli operai di Schindler. Tutto questo non mi ha preparato a farmi superare lo sconcerto per l’impatto visivo ricevuto da una foto di scarpe pubblicata qualche anno fa sul Washington Post Magazine. E’ un’immagine forte nella sua essenziale e agghiacciante realtà
La foto ritraeva parte di una marea di scarpe spaiate, logore, polverose; aperte probabilmente come le bocche spalancate dei loro proprietari. Ho scoperto, in seguito, che costituiscono un prestito permanente del museo di Mjdanek a Lublin in Polonia. 4000 scarpe senza un padrone, frazione infintesimale di una immane tragedia. Tutte lì, accatastate con una voluta sciatteria che richiama le cataste dissacranti di coloro costretti a soccombere ad un destino ingrato e atroce. Mi sono ritrovata a fissare, quasi in ipnosi, qualche singola scarpa, un sandalo, uno stivaletto, capitati in cima al mucchio per caso, o per oculata decisione del curatore. Mi sono così immaginata giorni più lieti che forse erano riuscite a calpestare, fatti di selciati o terra battuta; erano quelle scarpe il risultato di un acquisto frivolo o misurato? Qualche ballo qualcuna lo avrà ballato. Mi sono apparse innanzi le piroette di probabili bambini, le lunghe marce verso l’ignoto, i ciabattini che le avranno risuolate e quelli che non hanno fatto in tempo.
Cosa possono evocare quelle scarpe! Da un remoto cassettino della mia memoria salta fuori l’odore acre che impregnava la casa del ciabattino che inchiodava alacre le suole di tutto il rione, Don Nicola, sagoma distorta, tutt’uno con lo scranno, nella controluce della finestra, alla fine di un corridoio angusto. Casa ‘e putéca – casa e bottega in un unico ambiente, come dicono a Napoli. Non l’ho mai visto eretto, lontano dal quel suo deschetto consunto. Rivedo me seduta con le gambe ciondoloni in attesa dell’opera compiuta – Il trucco di mia nonna era quello di condurmici, dopo la messa domenicale, con indosso le scarpe da risuolare, per sottolineare l’urgenza dell’intervento, come se avessi quell’unico paio di scarpe. Mentre pazientemente attendevo muta, scalza e annoiata, con la reverenza che dovevo portare agli anziani, nonna lo blandiva con garbata e studiata condiscendenza. Quelli erano gli anni in cui il boom economico non aveva ancora travolto la categoria degli artigiani. Che ne sapeva allora, quella bimba pasciuta, delle scarpe di Lublin?
Poi la loro visione: ed ecco materializzarsi davanti agli occhi il fantasma di Sara, forse la proprietaria di quel sandalo bianco spaiato, quello piu’ vezzoso, parte del paio che la faceva avanzare con la spavalda innocenza dei vent’anni, quando la speranza è più dura a morire; o sarà appertuno ad Hannah, quella che si arricciava i capelli e camminava a testa bassa, rastrellata in un giorno d’estate: quale sarà stata la sua fine? E perche’ la vita del singolo deve essere segnata dall’arbitrio di altri?
Se quelle scarpe non le avete ancora viste presso il museo dell’olocausto [U.S. Holocaust memorial museum 100 Raoul Wallenberg Place, SW Washington, DC 20024-2126] cercate le loro foto on line. Forse raggiungerete anche il link del memoriale di Budapest, dove 60 paia di scarpe in bronzo sono state l’oggetto scelto per ricordare gli ebrei ungheresi eliminati, credo, con la stessa tecnica in voga tra le foibe. Sessanta paia di scarpe allineate con timida noncuranza, quasi a non voler disturbare troppo, ma abbandonate proprio lì nel punto in cui quegli ebrei cadevano nel Danubio, uno dopo l’altro, legati da un tragico destino e da una corda infame. Invece quelle altre scarpe in pila è come se fossero state ammonticchiate lì, inerti, ma pronte a sferrare un calcio allo stomaco a chiunque le guardi. Soprattutto se scarpe da bambini.
http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Tra qualche giorno l’Italia celebrerà il suo tributo al giorno della memoria, la Shoah che abbiamo imparato sui banchi di scuola. Tuttavia ognuno elabora l’orrore secondo i suoi personalissimi tempi e percorsi. Mi sento di azzardare che la mia stessa sensazione deve averla provata Renée Ferrer, nella sua personale elaborazione dell’olocausto.
Ancora, forse, poco nota dalle nostre parti, Renée Ferrer è un’autrice paraguayana con una particolare inclinazione a descrivere magistralmente soprusi e prevaricazioni. Nata in un paese di dittature che le hanno affinato una natura pronta a cogliere le infinite sfaccettature del dolore, ha affidato al suo Ignominia le parole della poesia per esprimere ciò che ha provato nel visitare nel 1986 Yad Vashem, il museo dell’Olocausto in Israele, dove un’unica scarpina in un cubo, immagino, in plexiglas, fa mostra di sé e dell’infinito dolore che sprigiona, mentre davanti agli occhi dell’autrice prende forma la visione della bimba che diventa fumo e si disperde in cielo. Riporto, nella versione in lingua originale, la sua intensa poesia Scarpetta vuota: [http://www.logospoetry.org/biography.php?code_author=12312&code_language=ES]
ZAPATITO VACÍO A las víctimas niñas del Holocausto.
Dentro de un cubo transparente
(Museo del Holocausto)
un zapatito vacío.
Cuero blando o burdo lienzo
impregnado del abultado recuerdo de los dedos.
Inerme
y un tanto anonadado
y, por detrás, gastado.
Lleva manchas de campo ensombrecido,
corridas a un balón de trapo
y un olor que penetra por los ojos.
Como único botín:
atesorado.
Desde su cavidad la carne niña
por viles chimeneas llovió al cielo;
desplomó su inocencia a las estrellas;
avergonzó a la luz,
pacientemente, hediendo.
I musicofili più attenti [o attempati?] avranno riscontrato la medesima immagine cruda e lirica al tempo stesso nella canzone del 1964 Auschwitz, la canzone del bambino nel vento, scritta da un allora sconosciuto Guccini; [la canzone infatti fu resa nota dall’Equipe 84 nel 1966, e dai Nomadi perché Francesco non era ancora iscritto alla SIAE].
In questi giorni Papa Francesco ha visitato il tempio maggiore a Roma, nell’anno del giubileo della misericordia, ad aggiungere il terzo anello nella catena della speranza. Ma l’intolleranza religiosa è purtroppo sempre in agguato e specchietto per le allodole per una strumentalizzazione fondamentalista. Qualsiasi la matrice, il terrorismo ha una sola faccia. Beato un paese senza santi né eroi?